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2.5.1 Jeans

Nel febbraio del 1999 una sentenza della Corte di Cassazione in un processo per stupro suscitò un tale scandalo da riempire per settimane le pagine dei quotidiani, i telegiornali, i talk show e da superare i confini del Paese diventando nota in tutto il mondo. Con la campagna che ne derivò l’Italia si fece conoscere come il paese nel quale “una donna in jeans può essere stuprata” ed i maschi italiani come un branco di cabrones che hanno libertà di stupro.

Il Sig. P., un istruttore di scuola guida, si era appartato in luogo non del tutto isolato ed aveva avuto un rapporto con l’allieva che non si era tolta completamente i jeans che indossava. La donna aveva poi elevato nei suoi confronti accusa di stupro. La condanna subita in Appello veniva ora cassata dalla Corte sulla base della considerazione che il denudamento parziale della donna, in sé e per sé e date le circostanze, faceva dubitare che fosse stata forzata anche considerando che è quasi impossibile sfilare ad una persona quel tipo di indumento senza la sua attiva collaborazione dal momento che l’operazione è già impegnativa per chi lo indossa. Quanto al movente della denuncia, la Corte rilevò che la donna aveva interesse ad alterare la versione dei fatti, quello di giustificare il rapporto intrattenuto con un uomo sposato nella preoccupazione per le sue possibili conseguenze, risultando poi senza spiegazione il fatto che, dopo l’ipotizzata violenza, la donna si fosse posta tranquillamente alla guida dell’auto. Con queste motivazioni la sentenza fu rimessa alla Corte d’Appello che nel settembre successivo condannava l’imputato. Da queste argomentazioni l’intero Paese ricavò il seguente principio: la magistratura afferma che una donna in jeans non può essere costretta al rapporto e che quindi, simmetricamente, se li indossa, la si può stuprare. “Jeans alibi per lo stupro” recitavano l’indomani i cartelli esposti da alcune deputate capitanate da Alessandra Mussolini che con l’occasione sdoganò definitivamente a Destra il femminismo.i Senza occuparci di stabilire se quell’uomo fosse davvero innocente, ma semplicemente se lo potesse essere, seguiamo la rete dei presupposti e delle conseguenze di quello straordinario evento cui abbiamo assistito stupefatti ed increduli. 

Un primo motivo di incredulità nasce dal fatto che, apparentemente, quei giudici devono aver finto di non sapere quel che ognuno di noi sa e cioè che ogni donna può essere violata a prescindere non solo dagli indumenti che indossa ma da qualsiasi altra condizione, stato o situazione in cui si trovi. In verità ciò vale anche per gli uomini, anche un maschio infatti può essere violato, comunque sia vestito, è impossibile che i giudici non lo sappiano. A maggior ragione restiamo increduli quando pensiamo che quella sentenza proviene da una magistratura non priva di ombre maschiliste, evidentemente, ma pur sempre capace di giudicare condannabile a sette anni un uomo che abbia tentato di baciare una collega, quella magistratura che già ha assimilato le “insistenti richieste” del marito a tentata violenza carnale ed ai maltrattamenti in famiglia. Quella magistratura che condanna per oltraggio l’uomo che getta a terra le camicie stirate e che ha da poco iniziato a condannare i maschi che alzano la voce dentro casa e quelli che non fanno le coccole alla moglie incinta. Quella magistratura che assegna i figli alle madri nove volte su dieci e che non se la sente di condannare la madre infanticida in quanto in quel momento “incapace di intendere e di volere”, condizione psicologica che l’omicidio stesso comprova. E’ la stessa magistratura che condanna a quattordici anni per omicidio un marito che ha contagiato la moglie di Aids ma si guarda dal procedere contro la prostituta che ne contagia centinaia.ii iii Come è possibile che questa magistratura, le cui sentenze contro i maschi imputati sono tenute sotto controllo capillare dalla vigile attenzione dei Comitati Pari Opportunità, dai Movimenti Femministi e da tutte le donne informate, si sia spinta a sentenziare che una donna in jeans non possa essere violata è cosa che lascia stupefatti. 

Ma ciò che indignò fu l’assoluzione. Dalla sentenza della Cassazione si poteva intravedere la quasi sicura assoluzione dell’imputato, ma poteva egli essere innocente? Capitali sono qui due convinzioni comuni. La prima si riferisce al fatto che, pur non conoscendone le proporzioni, si sa che solo una parte degli stupri viene denunciata, e che perciò, laddove e quando denuncia vi sia, il fatto è sicuramente accaduto. La seconda si fonda sulla considerazione che la donna non può avere alcun interesse a raccontare una cosa per un’altra, a mentire rovinando un uomo. Queste due verità contenute nella GNF sono diventate certezza universale sulla cui base la conclusione è inevitabile: non sarebbe stato denunciato se non fosse stato colpevole. Ora, nessuno di noi può tollerare che un colpevole sia assolto, meno che mai per simili delitti, oltraggio alle donne e vergogna per gli uomini. Per questo esplose l’indignazione, perché era stata dichiarata un’innocenza inesistente mentre tutti sapevamo che egli era colpevole. 

Questa presunzione di colpevolezza è la ragione per la quale vennero ascoltati con fastidio coloro (rarissimi) che con i ‘se’ ed i ‘ma’ e con una stucchevole analisi dei dettagli tendevano a difendere il “colpevole” come se avesse potuto essere innocente mentre non poteva esserlo e da questa certezza nacque l’universale indignazione. Se si fosse ammesso che egli poteva essere innocente tutto l’atteggiamento di fronte alla sentenza sarebbe cambiato e non vi sarebbe stato alcuno sdegno. In questa seconda ipotesi ogni dettaglio sarebbe diventato importante, in questo processo come in ogni altro, dove anche il più piccolo particolare può essere decisivo in quanto confermi o smentisca l’accusa. Anche in processi per delitti più gravi, quali l’omicidio o la strage, un dettaglio è decisivo, è così sempre e nessuno se ne stupisce. Un processo è un confronto ed una scelta tra due opposte versioni e come soppesarle se non attraverso la ricerca di fatti, eventi, cose, elementi che confermino l’una a danno dell’altra? 

Presumere che l’uomo sia innocente significherebbe però assumere che la donna sia colpevole di calunnia e questo coincide con quel procedimento sempre denunciato che consiste nel “blaming the victim”, nell’accusare e colpevolizzare la vittima anziché il colpevole, la violentata anziché il suo violentatore. Così, con l’assegnare alla donna il titolo di vittima prima del processo si condanna l’imputato prima della sentenza come se già si sapesse che stupro vi fu e questa è appunto l’indicibile verità dalla quale si parte: la donna diventa vittima (violentata) elevando l’accusa e perciò nello stesso istante l’accusato diventa colpevole. Su queste basi, come potrebbe mai esistere una falsa accusa di stupro? 

Ci si chiede poi per quale motivo una donna dovrebbe accusare falsamente un uomo di un simile crimine e non si sa come rispondere, giacché la ragione più semplice, il fatto che anche le donne sono cattive, è tabù. “Perché mai una donna dovrebbe denunciare falsamente un uomo?” si chiedeva un commentatore di “Repubblica” in quei caldi giorni del febbraio 1999, apparentemente non senza ragione. Denunciando lo stupro infatti la donna va incontro, se non al disonore come una volta, almeno alla commiserazione, un atto autolesionista insomma. L’unica spiegazione sensata consisterebbe nella volontà femminile di nuocere gratuitamente, una volontà così potente da passar sopra persino agli svantaggi cui essa stessa va incontro, prospettiva inconcepibile che perciò costituisce una buona ragione per presumere l’accusa fondata ed il maschio colpevole. Questa presunzione è inespressa perché indicibile ed è indicibile perché la conseguenza inevitabile è che i processi per stupro diventano un puro formalismo con il quale si finge di giudicare colui che di fatto è sicuramente colpevole, il che equivale a dire che non possono esistere false accuse di stupro e che ad ogni accusa deve seguire una condanna

Quei giudici invece, ingenui e fuori del tempo, partirono dall’antico presupposto che l’imputato potesse essere innocente e giudicarono quel caso particolare in quel contesto particolare alla luce del quale quei dettagli potevano avere rilievo. Se si ammette che possa esistere una falsa accusa, ogni sentenza (si tratti di maltrattamento, molestie o stupro) si baserà necessariamente su alcuni elementi che saranno cose, azioni, parole o altro, a riprova che nel racconto della donna vi sono contraddizioni, incongruenze, inverosimiglianze. Quale che sia, sempre vi sarà almeno un elemento che verrà assunto come prova dell’inconsistenza della tesi accusatoria, ma, si tratti dell’ora, del luogo, dell’abbigliamento, delle condizioni meteo, o di quel che si vuole, chi può dar peso ai dettagli nel caso di processi per stupro? Assolto sulla base di un particolare quello stesso potrà diventare oggetto di un nuovo slogan: “Occhiali, abili per lo stupro”, “Pioggia, alibi per lo stupro”, “Mezzogiorno, alibi per lo stupro” e poiché è chiaro che non esistono alibi per lo stupro non possono esistere dettagli, particolari o prove di innocenza di nessun tipo. 
 
La sentenza scandalizzò perché si sapeva già che l’uomo era colpevole e da questa pre conoscenza deriva inevitabilmente che ad ogni accusa deve seguire una condanna trasformando così i processi per stupro in una maschera, una finzione destinata a salvare le apparenze, verità tremenda che nessuno vuole vedere nel mondo in cui vive. Siamo tutti liberali, ora, e vogliamo che sia l’accusa a provare la colpevolezza e non l’accusato a provare la sua innocenza, persino in questi casi.

Se però i giudici ed i collegi giudicanti fossero composti in maggioranza da donne una sentenza di assoluzione non scandalizzerebbe nessuno, se sono le donne a giudicare gli uomini allora esse possono assolverli senza che vi sia ragione di sospettare alcuna autoassoluzione del genere maschile. Questa ipotesi sembra così ragionevole che alcuni mascolinisti auspicano la femminilizzazione totale della magistraturaiv in modo tale che, trovandosi un giudice donna, un accusato abbia una qualche probabilità di essere assolto. Essi sono confortati in questa opinione dai dati sugli affidamenti dei figli da cui risulta che le donne giudici sono (un po’) più inclini ad affidare i figli ai padri di quanto lo siano i giudici maschi; sembra insomma che se gli uomini vogliono giustizia questa possa venire solo dalle donne perché solo esse sono autorizzate ad assolvere un innocente, anzi, sono autorizzate a mandar libero persino un colpevole perché la decisione sarà giudicata frutto di un errore e non della “Cultura dello stupro”. 

Quella straordinaria e stupefacente campagna di criminalizzazione e colpevolizzazione del genere maschile ha avuto i suoi effetti, quelli cui mira l’universale male-bashing. Lo sdegno e lo scandalo furono universali e non mancò chi, come Oliviero Toscani, dichiarasse: “Mi vergogno di essere nato maschio”. Un famoso giornalista ne trasse motivo per affermare in Tv che il diritto delle donne a “dire di no” rimane intatto anche dopo aver portato un uomo a letto ed averlo perfettamente eccitato, dichiarazione sulla quale torneremo. Tre giorni dopo il Capo del Governo, Massimo D’Alema, promise, come parziale riparazione, l’accoglimento della richiesta femminista delle quote assembleari nella nuova Costituzione, operazione condotta puntualmente a termine da tutt’altra maggioranza parlamentare. Il pestaggio morale non è senza frutti.

i “Corriere della Sera”, 12.02.1999. Ma la sentenza fu al centro dell’attenzione di tutti i media per un paio di settimane e non ha smesso di essere richiamata ad ogni occasione.
ii Sentenza di primo grado riformata in Cassazione (n. 30425/01) con la condanna a 4 anni. In quella occasione la Corte sollecitò la riesumazione dell’ex art. 554 del C.P. (relativo alle malattie veneree) per la punizione degli “untori”. Cfr. “La Repubblica” 8.08.2001, p. 19.
iii La ricognizione istituzionale sistematica sulle sentenze è prevista dal D.P.C.M. 27.03.1997 al punto 9.1.
iv Attesa destinata ad essere presto esaudita; le donne in magistratura rappresentano oggi il 50,7% ma la sua femminilizzazione procede a ritmi serrati. Il più recente concorso ha visto le donne aggiudicarsi il 70% dei posti, mentre in Francia le donne magistrato si stanno avvicinando all’ 80% ed hanno già superato quella soglia in sede di istruzione preparatoria al punto di far nascere la proposta di introdurre quote pro-male per evitare che accada nella giurisdizione quel che già è accaduto nell’istruzione, dalla quale (si giura) i maschi sarebbero fuggiti per via dei bassi stipendi, ragione che non può essere addotta nel caso della magistratura. Questo apre finalmente la strada ad un diverso sospetto che qui però non si può approfondire.

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