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Alla “Grande Muraglia”

Siedo a un tavolo della “Grande Muraglia” e mentre mi esercito con i bastoncini entrano due giovani donne in compagnia di uno di quelli che a suo tempo sarebbero stati definiti ‘giovanotti’, quello stesso tempo in cui
‘signorina’ non suonava ancora sospetto. Mentre mi chiedo perché mai, in questo ristorante deserto, vengano a sedersi al tavolo adiacente, sento che parlano degli uomini. Civiltà vorrebbe che non me ne curassi, o che almeno fingessi di non curarmene, ma, stanco di politesse e sazio di buone maniere, sto ad ascoltare senza nemmeno cercare di nasconderlo. Parlano dei maschi. Veramente solo la biondina ne parla, la moretta e il giovanotto ascoltano e tacciono. Anna sta parlando di una certa sua zia - mi pare - e della magra vita condotta in compagnia del marito ubriacone e perdigiorno, parassita in casa e buono a nulla fuori. Delle sofferenze patite e dei mali subiti da parte di quell’uomo insensibile, crudo e volgare “...uno dei tanti...”, delle umiliazioni e del disprezzo, dell’ingratitudine manifestatale in tutta la vita a fronte del suo lavoro di madre e casalinga “...per tacere del resto...”. Adesso l’ingrato battifiacca è morto ma il figlio, quel mezzo disgraziato, per fare una bravata con la moto “...per mettersi in mostra...” si è quasi rotto l’osso del collo e tocca ancora a lei stargli dietro e fargli da infermiera “...e voi quando mai ci farete da infermieri?...”. Walter ascolta e tace, giocherellando col bambù, Anna prosegue citando la sorella parcheggiata nella disoccupazione dopo tanti anni di studio “...a che le serve la sua laurea? Per finire in fabbrica?...”. Lui invece non ha voluto studiare, ché comunque un lavoro lo trovava di sicuro “...conosci un maschio disoccupato da queste parti?...alla fine a voi le cose girano sempre per il verso giusto...”. Walter mostra ormai segni evidenti di insofferenza, ma tace, lanciando di sfuggita brevi occhiate verso di me, cercando conforto, un briciolo della famigerata
solidarietà maschilista. Invano.

La situazione si fa pesante ma Anna non demorde e passa a parlare dei minori stipendi femminili, delle discriminazioni, delle esclusioni e, viceversa, dei privilegi, dei favoritismi, delle opportunità maschili, costellando di ripetuti “...voi uomini ...voi ...voi maschi...” quel monologo che sembra non dover finire. Walter tace, solo arrischiando qualche timido “...sì, ma...” qualche imbarazzato “...però...”. Non c’è nulla da fare, la pioggia battente di una verità che non ha fine lo tiene inchiodato ad un impacciato silenzio e lo congela in un mortificato mutismo. Lo sguardo obliquo e qualche smorfia inavvertita tradiscono il suo disagio e la sua sofferenza, eppure non riesce a profferir parola. Entra gente nel ristorante ed il crescente brusio degli avventori mi impedisce ormai di seguire il filo di quel monologo che parla di verità inconfutabili, di verità che ammutoliscono. Rinuncio ad ogni pretesa di captare altri argomenti e differenti temi in quel racconto nel quale, ora me ne accorgo, non trovo una parola nuova, un solo aneddoto diverso da quelli che ho sentito forse cento o forse mille volte raccontare sui treni, nelle aule, nelle sale d’attesa, negli uffici, nei corridoi della burocrazia e
attorno alla tavola nei momenti conviviali. Niente di diverso da quel che ho letto sui rotocalchi femminili sin dalla giovinezza, di quel che trovo sulle riviste di mia nipote adolescente, sui quotidiani conservatori e progressisti, sui settimanali liberal e tradizionalisti. Niente di dissimile da quel che vedo nei film e che studio sulle pagine della letteratura femminista e dei profeti della ‘nuova mascolinità’. Nulla che io stesso ormai non possa raccontare con fior di dettagli. Così mi chiedo quante altre Anne e Consuelo e Stephanie e Olghe e Mary e Natasche in questo stesso momento, nelle terre occidentali, stiano narrando agli uomini - ai loro uomini - il medesimo racconto ed esponendo loro le stesse verità, e quanti Walter e Jordi e Pierre e Olaf e
John e Ivan stiano là muti, o al più balbettanti, ad ascoltare parole che li imbarazzano e chiudon loro la bocca. Mi chiedo anche per quale motivo quest’Anna, che pure deve essergli amica, non si fermi di fronte al palese
disagio, all’evidente imbarazzo di quell’uomo; anzi, come rinfrancata dal suo silenzio e ringalluzzita dal suo mutismo, perché continui senza sosta a ricordargli quelle verità che stanno trasformando una cena con due belle amiche in un mezzo supplizio.

Ma un’altra domanda questa volta mi cattura: perché Walter non parla? Perché quell’uomo che pure non viene chiamato direttamente in causa e che non è accusato personalmente di nulla non riesce a spiccicar parola? O forse ciò accade proprio per questo, perché non è lui l’autore di quelle mascalzonate e di quelle malefatte, non é lui il costruttore di questo mondo, tanto favorevole agli uomini e così avverso alle donne, proprio perché non è lui il responsabile di questo stato di cose? Se si trovasse in tribunale, colpevole o innocente, qualcosa saprebbe pur dire, tenterebbe di scagionarsi, presenterebbe le sue ragioni, si difenderebbe, senza dubbio inventerebbe un alibi, mentre qui non riesce a dire una parola a propria difesa. In tribunale parlerebbe pur se colpevole, qui non riesce a farlo da innocente. Là, accusato ingiustamente, si alzerebbe a gridare all’ingiustizia e allo scandalo, qui tiene gli occhi bassi e si morde le labbra. Eppure non sta rischiando nulla di importante, così almeno sembra, perché non c’è in ballo la sua libertà né i suoi averi. Nondimeno, come avesse un’arma invisibile puntata alla tempia, tace ed il più che si permette è di scrollare - ma quasi impercettibilmente - la testa. Un bel rebus davvero. Sembra quasi che una forza invisibile, un ignoto potere gli stringa il cuore e gli chiuda la bocca. Come se una sentenza senza appello fosse stata pronunciata contro di lui, come se un giudizio definitivo fosse stato emesso a sua condanna, se ne sta là muto e vergognoso senza neanche tentare ormai di schivare la valanga di accuse che gli piovono addosso. Tace, come se gli fosse stato tolto il diritto di difendersi, come se non avesse più la forza di reagire. Senza parole.

Nel tentativo di darmi una spiegazione di questo intrigante mistero mi figuro, lì sul momento, l’esistenza di una qualche forza invisibile, di una qualche potenza sin qui a me ignota, capace di zittire anche colui che in tribunale non temerebbe di urlare la sua innocenza. Qualcosa di simile deve esistere davvero, dal momento che ne vedo gli effetti. Quella donna, certamente a sua insaputa, tiene nelle mani un potere sconosciuto e senza nome, un’arma invisibile della quale non ho ancora scoperto l’esistenza. D’improvviso mi coglie un pensiero da briccone, è quando mi accorgo che se riuscissi a scoprire la radice di quel potere, se riuscissi ad impossessarmi di quelle armi invisibili, anch’io potrei forse ridurre al silenzio i miei avversari, chiudere la bocca ai miei nemici, o almeno - e perché no? - giocare qualche scherzo agli amici. Forse non potrei incastrare i colpevoli ma, ormai mi è chiaro, potrei sempre zittire gli innocenti. D’acchito non riesco ad immaginare la natura, l’origine di questo potere e chiedendo aiuto, pur così alla leggera, ai Grandi del Pensiero, convocandoli d’urgenza attorno al mio piatto ormai sfreddato, non riesco a trovarne uno che corra veloce in mio soccorso, che mi presti per un istante - dato il frangente non pretendo di più - la chiave di questo mistero, che mi suggerisca il nome di quella potenza che questa sera - ancora una volta - ho visto all’opera ammirato e stupito. Una cena diversa dalle altre, alla “Grande Muraglia”, fissata nella memoria da un piatto indigesto, da una domanda che finalmente deve trovare una risposta, la sua originaria risposta: come è possibile chiudere la bocca agli innocenti?

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