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3.8c.2 Neolinga

Molti mascolinisti rilevano che il politicamente corretto finisce con l’alterare le regole della lingua, introducendo arbitrarie anomalie grammaticali e cacofonie come rimedio all’asserito sessismo del linguaggio che invece si può provare totalmente inesistente in quanto non ha nulla a che vedere con i rapporti tra i Generi. Nessuno sosterrà che in Cina la condizione femminile sia migliore che in Occidente eppure la lingua cinese non distingue per genere ed il “vocabolario inclusivo” là non esiste. La parola ‘ren’ significa persona, essere umano, come il greco ànthropos e non è di genere né maschile né femminile. Lo stesso vale per ‘xiâo’, bambino e i suoi sinonimi che individuano i piccoli senza alcun riferimento al sesso.i

Già da questo è lecito sospettare che tra la lingua e i rapporti tra i sessi la relazione sia più che blanda e nessuno scommetterebbe un centesimo sulla possibilità di ricostruire, partendo dalla grammatica e dal vocabolario di una lingua, lo stato dei rapporti tra i due in quella comunità che la parla. D’altra parte l’uso del tutto erratico dei termini politicamente corretti indica incontrovertibilmente che la questione dei vocaboli è irrilevante e che la guerra delle parole nasconde qualcos’altro. Direttrice, direttore, direttora, tutto può andar bene come anche male, non è dunque importante il tipo di vocabolario che viene usato, quel che importa è che venga adottato quello imposto in ogni contingenza dal femminismo; non è importante il contenuto dell’imposizione ma l’imposizione in se stessa. Se si intende quello tra i sessi come un conflitto nel quale la sola cosa che conta è la collocazione di una volontà al di sopra dell’altra, diventa irrilevante ogni contenuto e ovvia l’indifferenza all’uso di questo o di quel termine, di questa o di quella locuzione. Se la posta in gioco è il predominio di una volontà sull’altra e non gli elementi ai quali si applica, allora dove gli uomini mettono il cappello non dovranno portarlo dove invece non lo usano lo dovranno adottare: what women want.

La questione del vocabolario si estende però anche ad altri ambiti. ‘Femminismo’ è un termine positivo, ‘maschilismo’ totalmente negativo, ‘femminista’ suona ancora bene, benché forse con qualche connotazione settaria e démodé, ‘maschilista’ è un epiteto che tutti evitano come la peste. Come si potrebbero denominare allora un movimento, un pensiero, una filosofia maschili simmetrici a quelli femminili? Quale termine usare per indicare i movimenti e le associazioni maschili che si occupano della posizione degli uomini nel mondo e come denominarne i componenti? Essendo inconcepibile una rigenerazione del termine ‘maschilismo’ gli attivisti di quei movimenti hanno deciso di abbandonarlo al suo destino e cercano da anni di crearne uno nuovo che non sia sin dalla nascita macchiato della stessa macchia. ‘Mascolinismo’, e quindi ‘mascolinista’, è il termine proposto anni fa da Marco Faraci ed è quello che abbiamo adottato in queste pagine, forse il migliore, benché vagamente adolescenziale, come vedremo. ‘Maschismo’ e quindi ‘maschista’, sono usati talvolta dagli addetti ai lavori ma la pericolosa assonanza con ‘maschilismo’ e ‘maschilista’ ne sconsiglia decisamente l’uso mentre il neologista Cristian Vailati ha recentemente proposto ‘virismo’ e, a significare la rinascita maschile, il sofisticato ‘palinandrismo’, pensiero degli uomini che ritornano

Questi tentativi, in qualche modo insoddisfacenti, derivano dal fatto che il femminismo ha imposto all’intero Occidente la convinzione profonda che ciò che ha radice ‘fem ’ è buono e quel che ha ‘masch ’ è cattivo; si è appropriato sin dal primo momento del vocabolario strappando agli uomini la possibilità di definire in termini positivi il loro pensiero di Genere ed oggi tutte le soluzioni proposte tradiscono palesemente quest’origine forzata, vie surrogatorie, strade secondarie percorse perché quella principale è sbarrata. Questo fatto è emblematico ed ha un significato che oggi appare in tutta la sua luminosa chiarezza. Con l’assegnare sin dall’inizio a quei due termini un opposto significato morale, le femministe hanno espresso immediatamente la loro posizione etica ed il loro progetto. Non donne contro uomini sullo stesso piano a difesa dei rispettivi interessi ma un progetto buono contro uno cattivo, interessi degni contro interessi indegni, volontà di bene contro volontà di male, una scelta che rivelava sin dall’origine la natura del conflitto come guerra etica, lotta di una parte per l’eliminazione delle ragioni morali dell’altra ma che non poteva essere individuata come tale. La coscienza maschile, immersa nell’unione affettiva con il femminile, non lo poteva percepire, perché ciò avvenisse era necessario che una nuova generazione di uomini subentrasse e, in un buio profondo, risalisse alla superficie dal sottosuolo di quella fusione rivivendo e risolvendo dentro di sé quel conflitto che si sviluppava al di fuori, nel mondo apparente.

Si sarà forse notato come certi termini si siano caricati di particolari significati, divergenti da quelli antichi, come esito del mutato sistema di valutazione. ‘Virilità’ e ‘virile’ ne sono due esempi, e comprensibilmente dal momento che: “Virilità e violenza sono normalmente connesse fra loro”.ii A suo tempo erano connotati più che positivamente e stavano ad indicare alcunché di eccellente, virtù da conseguire e caratteri da manifestare da ogni uomo degno di questo nome, i veri obiettivi dell’educazione del maschio. Con l’avvento del Fascismo, assunti come termini focali dalla propaganda del Regime ne seguirono il destino. Virili erano i Quadrumviri ed i Gerarchi, virili gli squadristi assassini, virili gli Avanguardisti e tutti gli italici maschi e virilissimo, si capisce, il Duce stesso dotato poi come nessun altro di quella “maschia volontà” indistinguibile dalla prepotenza e dalla volontà di dominio. Virile, cioè omofobo, prevaricatore, teppista; maschio, cioè brutale, dispotico, sciovinista; declinati in tal modo era inevitabile che quei termini venissero fatti propri dal femminismo. Se ‘virilità’ è termine imbarazzante anche ‘maschio’ non suona tanto bene: “Maschio, senza offesa” è il titolo di un paragrafo del saggio “Modi bruschi” di Franco La Cecla. Vita dura per le parole che hanno ‘masch ’ e ‘vir ’ come radice, ma non è così per tutte, ‘mascolinità’ infatti non ha avuto quel destino, gode anzi di grande fortuna, imperversa in ogni discorso sugli uomini e si capisce immediatamente perché, basta confrontarlo con il negletto ‘maschilità’ vocabolo scorrettissimo adottato solo recentemente con connotazione positiva e che formò già il titolo di un saggio di R. W. Connell nel quale però veniva suggerito di curarla somministrandole quelle medicine che il femminismo prescrive.iii

Lascio a chi mi legge sentire quanto profumi di adolescenza la ‘mascolinità’, quanto sia rassicurante e innocua la sua acerba innocenza a paragone della matura, cosciente, inquietante ‘maschilità’. Se questa è di uso sospetto cosa si potrà dire poi di ‘misandria’ che ha fatto la sua comparsa soltanto all’inizio di questo secolo? iv Cos’è la misandria? E qual è quella Civiltà che da secoli riconosce l’esistenza dell’odio antifemminile ma che solo all’inizio del suo terzo millennio ha saputo dare un nome a quello antimaschile?

i Cinese standard o di Pechino, lo stesso vale per i sinonimi ‘chì-zi’, ‘ér’ e ‘yá’.
ii V. Held, Etica femminista, op. cit., p. 163.
iii R. W. Connell, Maschilità, Feltrinelli, Milano 1996.
iv T. De Mauro Il Dizionario della lingua italiana per il 3° Millennio - Paravia, 2000.

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