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3.4.3 I paletti rimossi

Anche la più accanita femminista è certamente disposta ad ammettere che, almeno in linea di principio e pur con qualche legittimo dubbio (“Potrò prevaricare anche se nascerò femmina?”),i potrebbe darsi il caso che le donne invadano in qualche modo la sfera delle prerogative maschili superando quel limite al di là del quale non si dovrebbe andare e che di conseguenza anche gli uomini abbiano il diritto di segnalare quel che li ferisce, che li offende e li espropria. Riconoscimento del tutto naturale e scontato, specie se si considera che il femminismo si propone come araldo di quella “Cultura dell’ascolto” che nel mondo mancherebbe. Anche i maschi sono titolati a difendere le loro prerogative e i loro diritti, a porre dei paletti a difesa del loro territorio, a segnare i confini che non devono essere superati, ma dove si collocherà quel confine e, soprattutto, chi avrà il diritto di stabilire dove si trovi? Se lo si fosse consegnato agli uomini, questi avrebbero lasciato le cose come stavano chiamando diritti quelli che invece erano privilegi perciò non è ad essi che si possono lasciar piantare quei paletti.

Secondo l’opinione universale il femminismo avrebbe distrutto la prepotenza, la superbia e lo sciovinismo maschili ma non il valore degli uomini, non la sicurezza in se stessi perché questo non era nelle sue intenzioni, avrebbe buttato l’acqua sporca ma salvato il bambino. La sicurezza in se stessi gli uomini l’avrebbero perduta per colpa loro in quanto fondata totalmente su quel dominio che ora è venuto meno, ma, come è naturale, il femminismo si è riservato il diritto di stabilire dove finisse la prepotenza e cominciasse la legittima difesa, dove finisse la superbia e cominciasse l’autostima, dove finisse lo sciovinismo e cominciasse la giusta manifestazione del proprio valore e delle proprie qualità (comprese quelle fisiche), trasformatesi da motivo di ammirazione in ragioni di invidia e di accusa: “Anch’io farei quel che fai tu se non fosse per la società maschilista!”
 
In verità quel confine dovrebbe essere segnato dagli uomini perché sono essi i titolari del loro territorio ed è esattamente ciò che il femminismo ha impedito loro di fare. Essi hanno dovuto spostare indietro, sempre più indietro quel confine perché ogniqualvolta piantavano i paletti dell’autodifesa, quelli erano i termini “della prepotenza e dello sciovinismo”. Così di fatto non è mai esistito e non esiste alcun confine, nessuno ne ha mai sentito parlare né mai il femminismo ha detto quale sia ed è appunto per poterne negare l’esistenza che si è arrogato il diritto di stabilire dove dovrebbe essere tracciato. Il femminismo ha dichiarato falso il racconto maschile affinché gli uomini non possano mai difendersi: “Ci mancherebbe che ci fermassimo solo perché dite di soffrire!”. Rendere falso il racconto maschile (operazione teorizzata e praticata dalla de Beauvoir nel ’49) e risibili le sofferenze degli uomini significa rimuovere ogni paletto che l’Altro intenda collocare a sua difesa in modo tale che resti completamente senza protezione. Chi stabilisce dove finisca la forza e cominci la tracotanza violenta, dove finisca la sicurezza di sé e comincino lo sciovinismo e la protervia? In una parola, chi stabilisce dove sia il confine sul quale gli uomini si devono fermare e soprattutto chi ha il diritto di tracciarlo? Hanno forse gli uomini il diritto di porre paletti al comportamento femminile? Dove sia la frontiera nessuno lo sa, gli uomini non hanno il diritto di tracciarla e le donne hanno imparato a scardinare ogni difesa attraverso la falsificazione di ogni parola maschile con la quale si tenti di fermare l’invasione. A questo servono i quattro cassonetti.

Una mia amica, femminista praticante, mi confessava: “Mi sono separata perché non mi sentivo valorizzata. Io sono fatta così, ho bisogno che l’uomo si faccia avanti, che non abbia paura di superare quei miei finti dinieghi che per me sono un gioco che mi serve per sentirmi valorizzata e per capire se lui mi capisce. Invece era sufficiente che io titubassi su una qualche scelta e subito lui si adeguava o si ritirava. Non c’era mai confronto, era una vita morta. Non faceva mai più di un passettino e poi si fermava. Un uomo deve capire quel che una donna vuole”. Tentai di risponderle che io avrei fatto lo stesso perché gli uomini, prima di agire, hanno bisogno di sapere dove sia il confine in quanto essi soltanto subiscono le conseguenze morali (e penali) dei gesti compiuti nella relazione con l’altro sesso e quali siano i bisogni degli uomini dovrebbero stabilirlo gli uomini, ma mi interruppe: “...i soliti alibi maschili!...” ed al mio racconto sostituì il suo: “...gli uomini sanno benissimo quando si devono fermare!”. Sostituire a quello altrui il nostro racconto è appunto uno degli escamotage con i quali si chiude la bocca a colui che parlando ci metterebbe in difficoltà. 
 
A queste battute gli uomini non sanno cosa opporre perché non riescono a vedere la dinamica che vi è sottesa e qualsiasi cosa dicano viene distrutta dal sorrisino di scherno e dichiarata falsa. Il loro auto racconto non ha alcun valore. Nondimeno si trovano ancora uomini che tentano di parlare di sé pensando di essere ascoltati e creduti, sono gli ingenui, coloro che, rimasti ai margini della pressione esercitata contro di essi e del tutto privi di coscienza sul quel che sta avvenendo, credono di venire valutati per quel che sono e sentono e di avere il diritto di manifestare la loro volontà, la loro passione e la loro vitalità senza esserne sanzionati. Costoro sono poi lusingati dal suadente invito al dialogo contrabbandato come soluzione alle incomprensioni tra i Generi e premessa alla fine del conflitto, proposta quanto mai accattivante dalla quale è facile esser catturati come se le donne avessero conquistato diritti e potere attraverso un sereno colloquio con i loro avversari-nemici. Il femminismo non ha dialogato con gli uomini ha invece murato la loro bocca e da subito ha parlato al loro posto. Non è mai esistito alcun dialogo perché non è con esso che si combatte in Etosfera e la celebrata “Cultura dell’ascolto”, di cui le donne sarebbero naturali portatrici, non è altro che una formula dissimulatrice dei fondamenti di quel monologo universale che è la GNF. La “Cultura dell’ascolto” è sorda alle parole degli uomini è lo è necessariamente.

i D. Fortunato, Amore e potere, op. cit., p. 80.

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