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3.8c.1 Politicamente corretto

Il linguaggio non è mai neutro” è un’altra verità della GNF con la quale si dichiara che nella lingua si riverberano le condizioni sociali e le valutazioni collettive, qui, ovviamente, nel senso che in essa si manifesta la cultura patriarcale della quale porta le stigmate; la trasformazione del mondo non può quindi avvenire senza una contestuale metamorfosi di questo strumento. Come è inevitabile, anche in questo caso la battaglia si svolge in forma erratica in dipendenza dalle diverse sensibilità, dai diversi orientamenti del variegato universo femminista e dai paesi, e quindi dalle lingue che si prendono in considerazione, dando come esito soluzioni solo apparentemente contraddittorie. Le diverse scuole femministe non si sono messe d’accordo prima di sferrare l’attacco, ognuna invece è andata per proprio conto sostenendo tutto e il contrario di tutto senza patirne alcun danno. La critica, cioè la condanna, si appunta in via principale sulle desinenze delle lingue che distinguono per genere e sulla denominazione delle professioni e dei ruoli, nonché sui quei termini che, pur essendo grammaticalmente sostantivi maschili, possono riferirsi al genere maschile o ad entrambi, a seconda dei contesti: ‘uomo’ ne è l’esempio per antonomasia. Si tratta del famigerato vocabolario inclusivo che nasconde al mondo l’esistenza del genere femminile, che manifesta e attualizza il pregiudizio dell’universalità maschile in base al quale gli uomini credono di rappresentare il mondo intero. A questa distorsione pone rimedio il ‘politicamente corretto’. Ecco come.

Si sarà forse notato che mentre nel passato a direttore corrispondeva direttrice, in seguito il primo termine venne usato per indicare tanto il maschio che la femmina sotto la ragionevole motivazione che l’indicazione del genere derivava dal pregiudizio maschile che considera le donne solamente o anzitutto dal punto di vista sessuale. In questa logica Elsa Morante, ad esempio, alla fine degli anni sessanta si autodefinì poeta anziché poetessa. E’ la regola numero uno. 
 
Successivamente, insieme a questo principio, cominciò ad essere applicato anche quello contrario che impone la distinzione per genere (vocabolario disgiuntivo) con la non meno ragionevole motivazione che l’unificazione dei termini sotto quello maschile risponde a sua volta alla logica maschilista che, in questo caso, mira ad impedire la visibilità pubblica delle donne. Perciò si incominciò a distinguere tra i due generi, in ogni caso possibile, se non col sostantivo, almeno con l’articolo, così il capo dipartimento (per F e per M) divenne la capo dipartimento, rispondendo con ciò anche ai dettami della nascente “politica della differenza”. E’ la regola numero due che rimanda ai tempi pre-femminismo, quella del direttore (solo per M) e della direttrice, per capirci. 
 
Si osservò però che certi sostantivi, sia pur al femminile, quali direttrice, ambasciatrice, scrittrice etc., in quanto preesistenti al moderno femminismo erano stati coniati in epoca maschilista e perciò si devono intendere come derivati dal maschile e quindi dipendenti, subordinati, in qualche modo “costole” di quelli, venne così introdotta una terza regola che prevede la femminilizzazione dei sostantivi in altra forma, così direttrice divenne direttora, scrittrice scrittora e ministro diventò ministra (come si volle far chiamare Livia Turco). 
 
Le tre regole sono applicate tutte insieme con variazione non predeterminata, a seconda dei contesti, in relazione al diverso grado di cultura, di sensibilità o di militanza di chi parla e di chi ascolta. Così Enza Plotino della “DWpress” si fa chiamare direttora, (regola n. 3) mentre Fiorenza Vallino, direttrice di “Io Donna” si autodenomina direttore al pari di molte altre (regola n. 1). D’altra parte il nuovo Statuto degli studenti italiani porta il titolo “Statuto delle studentesse e degli studenti” (regola n. 2). Qui diventa irrilevante il fatto che il sostantivo studentessa esista da sempre e che perciò, come tale, dovrebbe essere ripudiato al pari di direttrice. Le donne possono dunque parlare e scrivere come vogliono perché sono titolari di se stesse e perciò possono dire ‘signorina’ anziché l’obbligatorio ‘signora’, possono esprimersi con ‘la chirurgo’, ‘la chirurga’, ‘il chirurgo’, ‘la direttrice’, ‘la direttora’, ‘il direttore’ a piacimento. Gli uomini invece non lo possono fare se non dopo aver congetturato su quale termine risulterà accettato e giudicato politicamente corretto dalle interlocutrici del momento. Il maschio sta lentamente imparando che può essere richiamato all’ordine da qualsiasi donna in qualsiasi momento, persino un oratore sa che può legittimamente essere interrotto se si lascia sfuggire un improvvido ‘signorina’. Non lo sa? Lo imparerà. Durante uno spettacolo teatrale il protagonista, ingenuo e non up-to-date, venne interrotto da una ragazza proprio per aver usato quel termine: se ne scusò e imparò. Un po’ alla volta tutti impareranno la regola: direttore, direttrice, direttora.
 
‘Uomo’ e ‘bambino’ con il loro doppio significato sono due sostantivi inclusivi sui quali si picchia duro da trent’anni e con i quali, dal momento che non possono essere cambiati, si picchierà per i decenni a venire. La nuova letteratura pedagogica e scolastica non parla più di ‘bambini’ ma sempre e solo di ‘bambine e bambini’, ma i mascolinisti hanno notato che quando si parla di delinquenti, di assassini e di ladri il linguaggio inclusivo non viene corretto per ricomprendervi esplicitamente anche le femmine e che quando si parla di morti sul lavoro non si sa a chi ci si riferisca giacché nulla indica che si tratti di maschi ancorché si parli “al maschile”. Dalla parte delle bambine è il titolo di un pamphlet famosissimo, un classico del femminismo italiano, ma chi mai potrebbe titolare “Dalla parte dei bambini” un simmetrico saggio che parli a favore dei piccoli maschi? Nessuno, perché segnalerebbe appunto che si parla anche delle femmine. Dalla parte dei bambini è infatti il titolo di un libro già pubblicato che parla di tutti i piccoli d’uomo e non sta dalla parte dei maschi.i

i Nell’ordine: E. Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano 1973 e V. Andreoli, Dalla parte dei bambini, Rizzoli, Milano 2002.

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