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3.3.15 La ricostruzione dell’interiorità maschile

Come lo stupro ha origine nella “Cultura dello stupro”, così la molestia deriva da quella della “donna oggetto”, al tempo stesso però, come nel caso dello stupro, anche per la molestia non conta ciò che l’uomo fa, ma quel che la donna sente. Per quanto animato dalla “Cultura della donna oggetto” se un uomo dice o fa cose gradite alla collega non si tratta di molestia, viceversa, per quanto scevro da misoginia e da volontà di dominio possa essere, se il suo comportamento risulta molesto di molestia si tratta e quindi di comportamento derivato da quella “Cultura”. Queste “Culture” devono esistere, giacché se ne vedono gli effetti. Anche il mantenimento di una parvenza di separazione tra dolo e colpa esige che si assegni l’origine del reato alla “cosciente volontà” maschile di nuocere, altrimenti come sarebbe possibile punirlo in applicazione della “tolleranza zero”? Per far questo non vi è che una strada, quella della ricostruzione a posteriori della volontà maschile, della fabbricazione della vera intenzione degli uomini. Si tratta di sostituirsi al loro racconto, di descrivere ciò che essi veramente pensano, vogliono, e sentono: “Voi sapete perfettamente...”.

In questa ricostruzione dell’interiorità maschile operata dalla GNF le molestie non sono quel che gli uomini credono e vorrebbero far credere, non sono sconfitte dell’autocontrollo davanti al loro sentimento ed alla loro passione   la malattia che li consuma   non gesto talvolta inconscio, non perdita di misura, non errore. Niente di simile: solo volontà di offendere e di umiliare. Non debolezza, non cedimento alla fiamma che cova, alimentata dal vento della vicinanza quotidiana, dalla frequentazione di lunga durata, dalla prossimità fisica, dal contatto casuale, dalla confidenza quasi familiare. Niente di tutto questo: solo volontà di disprezzo e di scherno. Non tracimazione di quello stesso fiume che alimenta la sproporzione delle cortesie e dei favori, lo scambio ineguale di riconoscimenti, il generoso inesauribile complimento, l’aiuto che anticipa, il quotidiano, intramontabile corteggiamento. Non questo, misoginia. Non maldestro gesto di affetto, non avvicinamento amichevole fuori luogo, non scomposta miscela di ammirazione e di simpatia, non sbilanciato atteggiamento paterno. Niente di simile, solo laida morbosità. Non errata interpretazione, non dubbio sull’indefinito confine, non incertezza di comprensione, non buona fede, non equivoco, non malinteso. Questo mai, solo diretta volontà di male. Non risposta   magari pesante   alle speculazioni sui loro ormoni, non estremo contrasto   forse inurbano   ad invisibili giochi impietosamente praticati da qualcuna su quella debolezza, non modalità   cruda e diretta   di spezzare i fili invisibili dell’ammiccante ricatto. Nessuna giustificazione, nessuna comprensione, nessuna pietà. 

E l’occhiata trasversale che invita a coprirsi, non sincera ammissione di debolezza, non lucido riconoscimento della dipendenza, non parola di verità sul loro stato, non intelligente tentativo di proteggere se stessi e le altre dalla confessata malattia; solo invidia, censura di vecchi impotenti. Ed il suggerito invisibile invito a scostarsi, non saggia prudenza, non domanda di collaborazione contro l’asimmetrica pulsione e le asimmetriche modalità, non invito alla Cavalleria, non richiesta di aiuto. No, non è questo, è disprezzo e rancore. A fronte di tutto ciò i gesti femminili, ancor che rari, comunque leciti e liberi. Quelli maschili, quand’anche siano in contraccambio, sempre nella paura dell’indeterminata definizione, fuori dalla loro volontà, fuori da ogni previsione. Non resta dunque che attendere il giudizio, che l’errore o l’equivoco, il rispetto di sé o l’invidia dell’Altro, l’antipatia o l’affetto, il coraggio di una nuova generazione o l’immortale idolatria di se stesse, il risentimento di una simpatia ricambiata troppo tardi o la sacrilega profanazione dell’Intangibile Tempio (“Corpo, ti amo”),i novello delitto di Lesa Maestà, la difesa della propria dignità o il piacere dell’altrui umiliazione, o l’insondabile, insindacabile intreccio di tutto quel bene e di tutto questo male, alla fine decreteranno. 

I castigati abiti maschili proteggono le femmine da una già inesistente debolezza, l’unica vera   il contatto   è difesa dalle muraglie e dalle torri delle comuni conquiste, dallo stile, dalla politesse, dalla paura della reazione umiliante, dalla possibile vergogna, dai regolamenti, dalla legge. Lei, le Mura della Civiltà a proteggerla dalle disperse schiere dei suoi sparuti ormoni, Lui, disarmato e nudo, davanti al tracotante esercito dei suoi, chiamato a dieci, a venti, a quarant’anni di perfezione per evitare il nome di maiale. Ce la farà? Ce la può fare? Può un camionista guidare per quarant’anni senza causare il minimo incidente? Può un uomo stare ogni giorno in mezzo alle donne senza che in un’intera vita gli sfugga una parola, un gesto che possa diventare molestia, causa di vergogna e di possibile rovina? Ce la farà? Ce la può fare? Quanto dovrà reprimersi, quanto dovrà negare di sé, di quel che sente e di quel che prova per riuscire in quest’impresa impossibile che è tale proprio perché l’esito non sta nelle sue mani? A tutto ciò si aggiunge la sfida beffarda: “Perché non manifestate i vostri sentimenti?”

La storica ed oggi più che mai necessaria freddezza nei contatti da parte degli uomini, compressi e inibiti nei loro gesti dalla “tolleranza zero”, dal pericolo della rovina, può ormai trasformarsi in motivo di scherno e dileggio: “Le manager abbracciano più dei colleghi”, ecco provata la superiorità del calore umano femminile: “Le donne non risparmiano ai loro colleghi inferiori in grado, pacche sulle spalle e abbracci affettuosi. Gli uomini invece...”,ii gli uomini invece per quello stesso gesto finiscono in prigione condannati per violenza sessuale. Un anno e tre mesi nel caso più recente, punizione leggera se si considera che alla vittima occorsero cinque lunghi anni per riaversi dallo choc.iii Oseranno mai gli uomini dichiararsi impauriti e ricattati, irrisi e vilipesi, o invece, mentendo a se stessi, in oltraggio alla loro anima ed alla loro storia che prometteva di essere libera, con quell’invisibile, quell’impensabile evanescente schiavitù che si chiama dipendenza, pagheranno caro, pagheranno tutto il prezzo di quest’impari libertà? Non accadrà piuttosto che nasconderanno con l’automenzogna la viltà di non aver osato pensare che anche la loro libertà era degna di essere difesa, che anche la loro anima meritava di essere protetta?


i “D - La Repubblica delle donne”, 01.11.2003, prima pagina.
ii “La Repubblica”, 21.02.2002, p. 26, corredata da una vignetta di Alain Denis: “Mi ha dato una carezza”- “E poi?” - “E poi ...mi ha mandato a pulire il cortile”.
iii Sentenza della Cassazione reperibile in www.tgcom.it il 16.10.2003: “Sono rimasta cinque anni a casa tanto sono rimasta traumatizzata”.

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