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2.7.11 Una forza inconscia

Si esprime nel femminismo una forza inconscia, quella di una forma vivente che si espande nel mondo secondo le proprie determinazioni e che chiama bene ciò che le è utile e male ciò che le risulta dannoso, e che, al pari di ogni altra, non conosce altro bene che ciò che le piace ed altro male che ciò che le dispiace. In quanto tale non è né buona né cattiva perché non sa dell’Altro se non quando e in quanto lo sente. Forza cieca e oscura a se stessa, non sa ciò che fa e come lo fa, ignora le conseguenze della sua azione perché conosce solo i suoi scopi, non mira al male di alcuno ma solamente alla realizzazione di se stessa, alla sua espansione nel mondo. Gli uomini che si rivolgono ad essa presentando le loro ragioni, raccontando la loro esperienza, elencando le loro sofferenze, spiegando come sono e cosa provano, come sperimentano la vita, in una parola, le loro proprie determinazioni, presumono di avere davanti a sé una entità cosciente capace di riconoscere l’esistenza dell’Altro sulla base del suo racconto anziché della sua forza, un’entità che conosca e rispetti le regole, quelle almeno che essa stessa proclama, che sappia dell’esistenza di confini, che riconosca la differenza tra scopi ed effetti. Presumono che l’inconscio possa riconoscere qualcos’altro che non sia la forza, fermarsi davanti ad un confine che non sia quello segnato dalla forza, rispettare una qualsiasi regola che non sia connessa con la forza, riconoscere un quale che sia diritto che non abbia il nome della forza. Solo gli individui possono essere coscienti mentre non può esserlo un intero Genere, così il parlare degli uomini è vano giacché, attendendosi coscienza dall’inconscio, parlano ad una entità che non esiste. Il femminismo è la voce di un’inconscia forma vivente in espansione e la GNF ne è la grande epopea. 

Dal riconoscimento di questa verità si ottengono due vantaggi. Il primo consiste nell’eliminazione di ogni sentimento di rancore contro quella parte del mondo che nega all’Altro quei diritti che rivendica per sé. Una volta compreso che non si tratta di rivendicazioni provenienti da un essere dotato di coscienza ma da una forma vivente totalmente inconscia con la quale i singoli individui sono fusi (le singole donne un epifenomeno), non si riesce più ad assegnar loro alcuna volontà esplicita di nuocere e perciò subito cade ogni risentimento. Il rancore trova fondamento nell’attribuzione di una volontà cosciente in chi ci ferisce, dalla presunzione che egli sappia ciò che fa mentre un cane che ci morda o un pazzo che ci insulti non suscitano alcun odio. Fatta propria questa verità elementare non ha senso chiedersi se questa forma vivente sia buona o cattiva perché essa non conosce gli effetti del suo agire. Il secondo vantaggio che gli uomini ne ricavano consiste nel liberarsi della paura di essere “cattivi”, misogini, timore che impedisce loro di andare fino in fondo nell’analisi dello stato delle cose per tema di scovare del male e del male profondo, proveniente da quella parte del mondo comunque amata. Disincantati, acquistano in questo modo la libertà di vedere e raccontare tutto ciò che scoprono, fosse anche un crudo egoismo, fosse anche un’antica pulsione inconscia alla vendetta, perché questa non apparterrebbe a singole persone ma ad una entità che non sa di esistere. Inconscia, ingenua, innocente.

Ci si chiede come sia possibile che il male-bashing, processo di portata universale e dagli effetti devastanti in corso da decenni sia passato del tutto inosservato agli occhi di quel femminismo che trova proprio in esso la sua arma più potente. Come è possibile che le femministe, psicologhe raffinatissime, non si rendano conto della potenza di questo strumento e non si siano mai interrogate sui mezzi con i quali hanno ottenuto quei successi di cui si gloriano? Le femministe sanno quello che stanno facendo e sono colpevoli dell’uso cosciente del pestaggio morale antimaschile di cui la colpevolizzazione è l’arma principale? Questi interrogativi esigono una risposta perfetta che è questa: tutto ciò non ha alcuna importanza. Cosa importa infatti se le donne in generale e le femministe in particolare sono o meno coscienti di quello che sta accadendo e di ciò che stanno facendo? La colpevolizzazione e l’intero male-bashing non perdono né in potenza né in efficacia se le promotrici agiscono ingenuamente, abbiamo già visto che vale invece il contrario. 

Siamo dunque sinceri, quelle nostre spontanee domande non nascono da un bisogno di conoscere ma dal desiderio di trovare una coscienza colpevole, di provare ancora una volta che se vi è del male (qui, una tantum, a danno degli uomini) ciò accade perché qualcuno lo vuole, perché dietro esso vi è qualcuno mal-disposto; ci aspettavamo un colpevole e non l’abbiamo trovato. Cosa andavamo cercando infatti se non i nomi delle componenti un fantomatico “Centro Mondiale di Elaborazione del Male a Danno degli Uomini”? Ebbene, ci piaccia o no, questo C.M.E.M.D.U. non esiste, non ci sono donne colpevoli di male-bashing e di colpevolizzazione, non esistono comitati femministi che abbiano elaborato a tavolino quella strategia. Niente di simile. Il femminismo non sa quali armi sta usando, non ne conosce il vero nome, gliene ha infatti attribuito uno completamente diverso, le chiama verità. La GNF non è un racconto colpevolizzatore ma il racconto vero della vera storia del vero male che da sempre colpisce le donne nel mondo. Certo, è possibile che alcune femministe abbiano percepito la natura del processo e che, dopo una conferenza, una lezione o un’intervista, qualcuna di esse si sia abbandonata sulla poltrona sorridendo della straordinaria ingenuità degli uomini e delle stesse donne che propagano le verità della GNF ignorandone la strumentalità, ma questo è del tutto irrilevante. 

Anche noi siamo andati alla ricerca di un colpevole, tentazione nella quale sempre si cade allorché, stanchi di seguire le azzurre e limpide vie del gelido Logos, si devia verso i sentieri color di rosa che conducono al cuore, e il cuore, si sa, vuole un colpevole. Non ci sono colpevoli.

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