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4.1.5 Ivan Primo e Ivan Secondo

Il processo che può portare degli esseri umani a denunciarsi ed autodenigrarsi non è affatto inaudito, la storia ci offre infatti un esempio straordinario di un tale evento su scala di massa, il Comunismo e la sua “autocritica”. 
 
Ivan Primo è un rivoluzionario russo finito davanti al tribunale zarista, ha organizzato scioperi e sollevazioni, ha fatto propaganda, ha distribuito materiale, ha nascosto fucili: ha fatto il rivoluzionario, per questo sta davanti al tribunale in attesa della sentenza che gli garantirà il capestro o la Siberia. Sta ritto e dignitoso, fiero e sicuro di sé, non si scusa, non chiede pietà, non si affida alla clemenza della corte. Aspetta la condanna ma non riconosce validità al giudizio perché dai suoi giudici lo divide un sistema di valori incommensurabile, una visione del mondo radicalmente diversa, un altro bene ed un altro male. Il corpo è in catene, l’anima è libera. Ma, si sa, la storia non ha pietà e quella Rivoluzione vittoriosa per la quale lottò lo riporta pochi anni dopo nello stesso tribunale ammanettato con gli stessi ferri. E’ Ivan Secondo. 
 
Diversamente dalla volta precedente, ora sta chino e tremante senza fierezza e senza dignità, angosciato si chiede sgomento la ragione di ciò che gli accade. Quel che lo aspetta è ancora la morte o la Siberia ma quel che lo lacera non è questa certezza, è l’angoscia del giudizio non la paura della condanna. E’ la sua dipendenza morale, il fatto che quel giudice giudica secondo i suoi stessi valori ed è perciò titolato a giudicarlo. Il giudizio che viene dall’esterno ora coincide con quello che sale dall’interno. Quelle labbra che già sogghignarono beffarde ai giudici del Vecchio Mondo ora tremano di colpa e di vergogna, perciò, disperato, tenta di accreditarsi, elenca i sacrifici, le azioni, le medaglie conquistate, ma tutto ciò non gli giova, perché non è qui per subire la condanna del suo operato ma il giudizio sul suo essere, non si fa questione delle sue azioni ma della sua posizione interiore rispetto al Nuovo Ordine. Capisce allora che quel che ci si attende da lui è che si confessi, che riconosca la sua sottomissione, che si consegni al nuovo sistema morale ed è dunque irrilevante quel che egli ha fatto o non fatto. Che confessi, si tratti pure di delitti mai commessi, è questo che deve fare ed è ciò che egli fa; non pago di confermare le false accuse egli stesso inventa crimini non compiuti e infine chiede di essere punito, esige di espiare, viatico alla sperata riammissione nel Nuovo Ordine Morale, premessa e promessa della futura “riabilitazione”. Da vivo, se possibile, o almeno da morto. Lo stesso corpo, un’altra anima.

Sarebbe errato pensare che queste dinamiche siano emerse solamente là dove l’ideologia comunista era al potere e derivino perciò dalla minaccia dell’uso della forza, lo stesso meccanismo si manifestò all’interno del movimento comunista in Occidente e coinvolse migliaia di uomini in un percorso psicologico del quale dà testimonianza, tra gli altri, Edgar Morin.i Non è la spada che produce questi effetti ma il riconoscersi sottomessi ad un sistema morale, subordinazione che è opera di un lungo processo dal nome inquietante. Nessuno si aspetta né pretende che un immigrato rinunci alla sua religione, muti i suoi valori, tradisca la sua fede, abiuri a se stesso; quel che non è pensabile per gli ospiti e gli stranieri è invece l’obiettivo dichiarato del femminismo verso gli uomini. L’abiura di sé.

Il crollo morale è il cedimento finale delle forze interiori che alimentano e sostengono l’integrità interiore di cui sono l’anima, non è l’esito di una sconfitta giacché vi sono sconfitte capaci di rinnovare la volontà di lottare ma la maturazione della percezione che non vi è modo, perché non vi è più ragione, di opporsi alla forza che preme. La colpevolizzazione, il vilipendio, la svalorizzazione, l’intimidazione, l’esproprio non sono sufficienti a giustificare il cedimento maschile, qualcos’altro è venuto meno ed è il sistema simbolico che è stato totalmente disarticolato. Con la sua disgregazione è scomparso il futuro, la fonte dell’azione come ragione autonoma per cui spendersi e vivere, la fine del Senso. Non essendoci più uno scopo autocreato non resta che assumere gli scopi dell’altro, abiurare se stessi.

i E. Morin, Autocritica, Moretti & Vitali, Bergamo 1991 (1970).

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