Top Slide Menu

3.4.5 Autonegazione dell’esperienza

Sono gli uomini che devono cambiare, non noi” così gridarono le Redstockingsi trent’anni fa. E’ inconcepibile che una trasformazione interiore delle proporzioni richieste dal femminismo, la rieducazione di un intero Genere, non produca traumi e paure, sofferenze inevitabili e giuste, fonte di legittimo orgoglio, incontestabile manifestazione della potenza femminile. Asseriti bisogni, immaginarie necessità, falsi mali che non solo non sono degni di rispetto, ma anzi possibile motivo di canzonatura, “Soffrite, soffrite, maschietti!” diceva una conduttrice alla radio.

Benché secondo il femminismo non esistano uomini “migliori” resta pur sempre vero che alcuni sono meno peggiori degli altri e sono questi che andrebbero lodati e lusingati con lo scopo di migliorarli ancor più e, nel contempo, di incalzare i refrattari, è forte dunque la tentazione di lodare i primi e di biasimare i secondi, sennonché vi si oppone una grossa difficoltà. Con la lode a coloro che ammettono di essere in crisi non si fa altro che evidenziare il fatto che si stanno adeguando, stanno cedendo, si stanno conformando e l’elogio si trasforma così in denuncia della loro sottomissione, nella diretta affermazione che stanno ubbidendo alla vincitrice. Troppo umiliante ed infantilizzante per poterlo praticare apertamente, di qui la prudenza con la quale si parla del nuovo comportamento maschile in quanto derivante dall’azione rieducatrice del femminismo. “Non chiamatelo mammo. Non fatelo sentire una caricatura”, avverte preoccupata Maria Stella Conte riferendosi ai padri che chiedono il congedo parentaleii perché ben pochi possono tollerare una simile umiliazione e meno che mai autoinfliggersela confessando di essere sulla via del pentimento e della conversione: la resa incondizionata. 

Il timore di questa vergogna impedisce così agli uomini di parlare dei mali e della rovina che il femminismo sta producendo su di loro, di qualsiasi male, in qualsiasi forma e di qualsiasi gravità. E’ così costruita a carico del maschio la vergogna di dichiararsi offeso, violato, ferito. Impedendogli di dichiararsi offeso, con il passare del tempo, in forza della necessità che ha di mantenere un minimo di coerenza interiore, dovrà negare a se stesso di sentirsi offeso. A questa conclusione giungerà necessariamente perché non può conservarsi a lungo nello stato di colui che prova un sentimento ma deve vergognarsi di provarlo, perciò prima o poi lo negherà. In una simile condizione si apre persino la possibilità di sfidarlo invitandolo ad esprimere i suoi sentimenti, a raccontare la sua esperienza, giacché si è certi che non lo farà. Si potrà allora usare il suo silenzio contro di lui denunciando il suo mutismo come prova della sua inettitudine esistenziale e dell’eterna incapacità maschile di confrontarsi con i propri sentimenti e la propria interiorità. E’ che sono fragili, infantili ed hanno paura di mettersi in gioco, ecco perché tacciono.

i ‘Calzerosse’, collettivo femminista newyorkese dei primi anni Settanta.
ii “La Repubblica”, 01.11.2003, p. 12.

0 commenti:

Posta un commento

I messaggi anonimi non verranno pubblicati.
Inserire Nome nell'apposito campo