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3.4.11 Se l'Altro tacesse

Non vi è alcuna contraddizione nel pretendere l’ascolto da parte altrui e nel negargli il nostro, nel rivendicare un diritto e nel disconoscerlo all’altro giacché entrambe le imposizioni sono strumenti di lotta. La negazione dell’esperienza maschile, lo svuotamento originario del valore delle sofferenze degli uomini è un passaggio necessario per l’espansione del potere femminile nel mondo. L’esperienza ed i bisogni degli altri mi condizionano e limitano il mio comportamento, questa è la ragione per la quale il femminismo parla di quelli femminili e denuncia senza sosta i mali patiti dalle donne e per questo ha insegnato loro a rendere pubblici i torti e le angherie subite e prima ancora a prenderne coscienza, a sensibilizzarvisi, a moltiplicarli per cento, per mille ed infine ad inventarli. Se questo fosse lecito anche agli uomini la sua illimitata espansione non sarebbe possibile.

Gli animali segnalano la loro presenza e fissano il confine del loro territorio attraverso segnali chimici, visivi, sonori, gli umani usano il linguaggio con il quale delimitano la sfera di ciò che per essi è bene e male; con le parole informiamo il vicino di averci pestato un piede. La sofferenza altrui, in quanto indice di una compressione delle sue prerogative, della sua sfera esistenziale, rappresenta un confine per me perciò se gli impedissi di segnarlo e di segnalarmi la sua sofferenza io non avrei più confini. Chiudendogli la bocca mi libererei dei limiti che potrebbe pormi e potrei agire come se lui non esistesse, in una parola mi libererei di lui cacciandolo dal mondo. La condizione migliore per me sarebbe dunque quella nella quale la mia esperienza fosse vera e la sua falsa, in cui io potessi parlare mentre l’altro deve tacere e migliore ancora quella nella quale io descrivessi ad un tempo sia la mia esperienza che la sua inglobando il suo racconto nel mio. Se anziché due racconti ve ne fosse uno solo, la GNF, non sarebbe meglio?

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