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3.8c.4 Organismi di parità

In tutto l’Occidente i comitati e le commissioni che difendono i diritti, gli interessi ed il potere delle donne portano il nome di ‘organismi di parità’ ad onta del fatto che sono composti di sole femmine, come se fosse possibile per una parte stabilire autonomamente cosa sia paritario e cosa no, come se le donne fossero ontologicamente dotate di una imparzialità inconcepibile sulla terra. Come se fossero creature di rango superiore capaci di limitare il loro potere senza che vi sia una forza che quei limiti impone. ‘Comitati del potere, dei diritti e degli interessi femminili’, questo è il loro unico nome possibile, il solo non ingannevole né mistificatorio; ora, se l’assunzione del nome degno e vero fosse cosa di poco conto quei comitati se lo sarebbero assegnato sin dall’origine, se una simile falsificazione fosse frutto di una distrazione il rimedio sarebbe stato trovato da tempo e non si capirebbe perché mai in tutto l’Occidente portino ovunque il medesimo nome che ne dissimula natura e finalità: ovunque e ripetutamente lo stesso errore? E’ chiaro che la questione del nome deve avere la sua importanza e che la denominazione attuale non è né innocua né innocente, lo si vede dagli effetti della loro eventuale ridenominazione in: ‘Comitati dei diritti femminili’, questa screditerebbe immediatamente ogni pretesa di oggettività e incrinerebbe il principio dell’obiettività femminile fondata sulla “naturale empatia” delle donne, si manifesterebbe immediatamente la necessità di creare dei controcomitati che si occupino dei diritti maschili, o, viceversa, l’opportunità della pura e semplice soppressione dei ministeri, degli assessorati e degli organismi istituzionali creati a tutela di una parte contro l’altra.

La denominazione corretta verrebbe subito letta come ‘Comitati dei doveri maschili’ e in tal modo ne uscirebbe recisa l’attesa maschile di ottenere da essi appoggio, difesa e sostegno. Nessuno è tanto babbeo da aspettarsi la difesa dei propri diritti da parte di organismi creati per imporgli doveri, nessun maschio, per quanto tonto, penserà mai di andare da un “Comitato dei doveri maschili” a mendicare alcunché, né presenterà a esso richiesta di diventarne “interlocutore ufficiale”, né accetterà di esserne cooptato cedendo alle recenti lusinghe dei Comitati orientati alla conquista di un accreditamento e di una legittimazione dei quali evidentemente si sente il bisogno, abile scelta mirata a svuotare sul nascere la denuncia della loro natura parziale e a sterilizzare ogni opposizione. 

Infine, ciò costituirebbe un primo momento di chiarezza nella visione delle cose, di separazione tra le due interpretazioni del mondo e dello stesso conflitto tra i sessi. Si incomincerebbe a liberare gli uomini dall’inganno di una “comunione di intenti” che in un conflitto non può esistere svincolandoli da quell’abbraccio psicoemotivo (la pulsione femminile all’inglobamento, alla fusione) che, catturandoli, confonde in loro la percezione delle cose e ne oscura la coscienza. Ce n’è abbastanza da giustificare tanto l’invenzione quanto la gelosa conservazione di quella mascheratura, eppure qui non c’entrano né il potere né il denaro, né i ruoli né le identità, né le carriere né gli avanzamenti, né i privilegi né le discriminazioni. La difesa di questa utile mistificazione è scomoda e imbarazzante e ciononostante pervicace e ostinata.

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